giovedì 14 luglio 2022

Turno di Notte 2022 - Mountain Bike

versione iniziata alle 22 del 9 luglio e servita alle ore 3 del 10 luglio 2022
per il concorso "Turno di Notte"

Mountain Bike – Stefano Samorì

DA UN INCIPIT DI CARLO LUCARELLI
Non è facile raccontare una storia meravigliosa.
Anche perché non è detto che la meraviglia scaturisca soltanto dalle cose belle.
Ma bisogna farlo, perché ci sono cose che potranno anche essere incredibili e fantastiche, piene di bellezza o di orrore, di commozione e dolcezza, così meravigliose da troncare il fiato nella bocca spalancata, ma se nessuno le conosce è come se non fossero mai esistite.
Però non è facile raccontarle.
Da dove cominciare?
Ecco, in questo caso, per una volta tanto, forse è necessario partire dalla fine.

Mi si prospettava un’altra sera passata litigando con mia moglie appena rientrato in casa. Il lavoro mi faceva fare tardi ma lei pensava che avessi un’altra con la scusa del lavoro.
Non sapevo più come giustificarmi, il lavoro nella nuova azienda si era rivelato più impegnativo del previsto. L’esigenza di mettermi in pari con gli altri mi portava a fare tardi per studiare i progetti che non conoscevo ancora. Ma questo non piaceva a mia moglie, soprattutto dopo che aveva visto una collega, molto giovane e molto vistosa a sentir lei, uscire poco prima di me una sera che era venuta a controllare se ero davvero in ufficio. Casuale certo, nella struttura eravamo in centinaia di impiegati, ma difficile da far comprendere a qualcuno preso dalla gelosia.

Il giorno dopo, mentre presi una via diversa per evitare un incidente, notai una mountain bike completamente dipinta di bianco appesa a un cartello di fianco alla strada. Passavo da quella strada ogni tanto ma la bicicletta agghindata in quella maniera non l’avevo mai vista.
Cominciai a deviare in quella direzione, pur allungando il percorso verso casa, pensando inconsciamente che passando avrei capito il significato di quella...”cosa”.
Parlandone in giro venne poi fuori che in quella posizione doveva essere stato investito qualcuno in bicicletta, con esiti per lui fatali.
Qualcuno, la moglie, non sapevo ancora chi, aveva poi deciso di fargli onore o qualcosa del genere dipingendo la bicicletta di bianco, e appendendola al cartello stradale più vicino.
Ormai erano mesi che la bici era presente e nessuno l’aveva tolta da quel trespolo senza nome.
Neanche la Polizia Municipale, con evidenza, si era sentita di far rispettare il codice della strada tenendo pulita la segnaletica.

Intanto i mesi passavano. Mia moglie continuava ad accusarmi di essere un porco, ma non avendo prove, e non potevano essercene, non mi lasciava. 
Nel frattempo avevo fatto delle ricerche e trovato articoli di giornali online che spiegavano l’incidente. Ma niente d’altro, fino a che un giorno trovai la bicicletta per terra, sdraiata, abbandonata.
Ripassando al ritorno e trovandola ancora in quella posizione decisi di fermarmi per fare qualcosa. Che cosa poi non lo sapevo ancora, ma qualcosa dovevo fare, anche io ero solito allenarmi in bicicletta per le stesse strade e fin dal principio ero stato naturalmente solidale con questa persona che sarei potuto essere io in un’altra possibile direzione del tempo.
Per la prima volta vedevo la bicicletta da vicino, quasi con paura mi rendevo conto che un dovere mi imponeva di rimetterla al suo posto, come se mi trovassi in un cimitero di fronte a una lapide danneggiata a cui potevo e dovevo por rimedio.
Stranamente poteva sembrare tranciato il fil di ferro che era stato utilizzato per fissarla, come se qualcuno l’avesse di proposito abbattuta, direi quasi sfregiata per spregio, ma non aveva senso, non poteva essere stato che il tempo trascorso e la ruggine.
In qualche maniera, con il filo rimanente, la riuscii a metterla almeno appoggiata in piedi, ma certo non sarebbe durata come sistemazione. Sarei dovuto tornare per sistemarla meglio.

Il giorno successivo mi premunii di fil di ferro e tenaglie e al ritorno dal lavoro misi al suo posto la bicicletta. Mentre stavo sistemando qualcuno passando mi suonò con il clacson. Lo presi come un plauso al lavoro fatto.

L’indomani non riuscii ad andare al lavoro perché mia moglie, in una crisi d’ira e di gelosia, mi aveva lanciato un piatto causandomi un taglio in fronte.

Quando il giorno successivo tornai al lavoro, trovai la bicicletta nuovamente a terra. Stavolta non poteva essere stata l’usura. Mi fermai contromano per controllare trovando tagliato il filo di ferro e la bicicletta spostata verso il centro della strada, come per farla schiacciare. La recuperai per cercare di rimetterla a posto, e mentre ero intento a capire come fare un clacson mi fece sobbalzare. L’auto che aveva suonato frenò con tutto l’impeto e il rumore che poteva concedergli il modello. Mi voltai per capire che diavolo stesse succedendo trovandomi di fronte una donna che stava scendendo dall’auto lasciata in mezzo alla strada.
Sbraitava di lasciar stare la bicicletta di quel maledetto di suo marito. Mi si avvicinò fino a cercare di strapparmela di mano, cosa che non accettai.
Visto che non riusciva si buttò a terra piangendo sconsolata, con le mani comunque ben ferme su una ruota della bicicletta mentre io tenevo le mani sull’altra ruota. Mi cominciavo però a sentire strano con quella donna, che forse aveva più diritto di me su quella lapide laica. Non capivo perché la moglie avesse detto quello che aveva detto sul marito.
Non sapevo davvero cosa fare, fino a che scese dall’auto un’altra donna. Mi raccontò che sua sorella Margherita, così si chiamava la donna, dopo la morte del marito e dopo aver costruito questo monumento in suo ricordo, era venuta in possesso dopo molti mesi di un cellulare che il marito teneva in ufficio e che si erano dimenticati di riportarle. 
Sul telefono aveva trovato dei messaggi nei quali era esplicito che il marito, con la scusa del girare in bicicletta, in realtà andava a trovare un’altra donna, collega d’ufficio.
Lasciai la ruota come se scottasse.
Mi scusai con Margherita e le chiesi se voleva che fossi io a far sparire la bicicletta.
La sorella mi guardò facendomi capire che bastava così.
Tornai a casa e mi scusai con mia moglie.
Non avrei più fatto tardi in ufficio la sera.
Non ha mai capito il perché del mio cambiamento.

martedì 25 maggio 2021

Fortune


Quando mi alzai era già buio. Nonostante tutti i miei buoni propositi avevo dormito tutto il giorno.

Mi sentivo ancora talmente svuotata che sarei tornata volentieri a letto, così, solo per non fare nulla, per non dovermi sforzare, per non dovermi confrontare con la gente.

Avevo staccato la cornetta del telefono. 

“DRRRIIIIINNN” appena rimisi a posto il telefono. Non volevo rispondere ma dopo una settimana non me la sentivo di farmi ancora negare.

“Si...” dissi piano, magari avevano sbagliato numero.

“Ciao Anna” quasi mi urlò un perfetto sconosciuto. Misi giù e il telefono si rimise subito a suonare.

Lo feci ancora, e ancora, il telefono suonava e io staccavo.

Sembrava di essere in uno di quei programmi TV in cui il pubblico telefona per cercare di indovinare quanti fagioli ci sono in un vaso.

Forse in parte era proprio così.

Riprovai a rispondere.

“Pronto, Anna?” e anche questo chi cazzo era. Riattaccai e lasciai staccato il telefono. Il cellulare l'avevo buttato da un ponte qualche giorno prima, un bel tuffo nell'acqua e basta chiamate.

Provai a dare un'occhiata fuori, attraverso la finestra, guardando verso il basso, cercando di non farmi vedere.

Le troupe televisive avevano occupato gran parte della strada, mentre le forze dell'ordine cercavano di tenere indietro la folla di persone.

La follia totale tre piani più in giù.

In una settimana era cambiata la mia vita di tranquilla, magari anche troppo, impiegata del Comune.

Ero una fresca vincitrice al Superenalotto. In realtà non ero stata io la trionfatrice, ma il destino e un giocatore distratto, si erano occupati della faccenda.

Il tagliando vincente l'avevo trovato per terra, davanti ad una ricevitoria dove stavano festeggiando la grandiosa vittoria del primo premio. 


Era già presente il baraccone delle televisioni e tutto il resto. L'estrazione del giorno prima aveva baciato il mio allegro paesino. 

Non avevo mai giocato e non avrei giocato neppure quella volta. Successe che entrando nella tabaccheria per comprare delle marche da bollo, così, senza motivo, raccolsi una schedina caduta a terra.

Stavo guardando con curiosità il tagliandino girando e rigirandolo tra le dita senza riuscire a capirne i meccanismi quando un uomo dietro di me mi volle aiutare.

“Cosa giri per le mani, è un biglietto già giocato dell'estrazione di ieri. Vai a vedere quanto hai vinto, magari è vincente pure il tuo come quello fortunato di ieri sera...”.

“Va bene, vado a controllare se ho vinto” simulando una conoscenza che non c'era.

Dopo una fila interminabile finalmente arrivai alla cassa.

“Ciao Piero, mi daresti due marche da bollo da 14,62. Me le segni nel conto del comune”

“Va bene”.

“Ah, stavo per scordarmi. Guardami anche questo biglietto”.

“Certo, subito”.

Lo vidi mettere il tagliando dentro la macchina e sbiancare subito dopo. Si mise a sedere prima di parlarmi.

“Anna. Lo sai che hai vinto i cento milioni di Euro” lo disse piano, ma non abbastanza perché da quel giorno io vivo l'incubo.


La storia di come avevo trovato il biglietto mi aveva scatenato addosso una serie di persone che affermavano di averlo perso. E forse tra di loro c'era anche lo sfigato o per meglio dire l'idiota, ma non era affar mio ormai.

E un'altra serie di persone che volevano un prestito, una regalia, una donazione.

I Carabinieri mi presidiavano la casa e mi avevano già fatto capire che non sarebbero potuti rimanere per sempre.

Dovevo andarmene. Subito. Scappare. Cambiare vita. Ma per far cosa?

La mattina dopo mi vestii con abiti vecchi che stavo per buttare. Una parrucca usata una volta per un addio al nubilato, un cappello e un paio di ampi occhiali neri che ultimarono il mascheramento.

Uscii dal garage del palazzo.

Ero fuori. Nessuno mi aveva riconosciuta. Ma ora chi mi avrebbe indicato la mia strada per la vita.

Il primo segno mi aspettava all'ingresso laterale del Municipio. Stava di fronte a me. La segretaria rompiballe, che non sopportavo in ufficio, mi aspettava.

“Lo sapevo che saresti arrivata, sei più furba di quanto sembri... ma non abbastanza per me”

L'avrei strangolata. E lo feci fare qualche settimana più tardi. I soldi, tanti soldi, comprano tutto.

“La fortuna ti è arrivata senza neanche cercarla. Ti ho sempre invidiata, bella e ammirata dagli uomini. A me solo le briciole delle attenzioni che cadevano dalla tua scrivania”.

Era tutta rossa, paonazza, di rabbia e invidia, decisa a rigurgitarmi tutta la collera che provava contro di me, nella sua camiciona larga, stampata a grandi fiori, a coprire la stazza da mangiatrice notturna pentita.

“Non vorrai negarmi una piccola parte della tua fortuna, anche perché potrei andare a rivelare, alla moglie del nostro bel collega, che cosa fate quando siete soli”.

L'avrei fatta uccidere con gioia. 

“Fai quello che vuoi” risposi andando oltre.

Mi afferrò con una mano grossa e sudaticcia. La bava le scendeva da un bordo della bocca.

“Lasciami” urlai.

Questo richiamò il mio bell'uomo sposato che arrivò a salvarmi. Prima di ogni incontro sessuale mi prometteva che avrebbe mollato la moglie. Ma sapevo che non lo avrebbe fatto mai.

Lo feci uccidere volentieri, non prima però di farmi promettere che avrebbe mollato la consorte. Avrebbe giurato qualsiasi cosa legato a quella sedia in cantina.

Andai in ufficio a ritirare alcuni oggetti a cui tenevo. Piccole sciocchezze da donne.

E lì incontrai la responsabile dell'ufficio. Sapeva certo della mia fortuna, ma non mi volle dare soddisfazione. Mi riprese però per il ritardo nell'entrata al lavoro. 

Davanti a tutti, nel tono plateale in cui si crogiolava, ma con maggiore enfasi.

Comunque, nel suo personaggio. Era lei la moglie del mio bell'uomo. E qualcosa aveva capito che non andava con il marito. Magari anche solo dai mal di testa del consorte dopo i nostri incontri.

Era una donnetta, inutile e dannosa, con la sua vita da lacchè di politici, pure loro inutili e dannosi, che la comandavano.

Fu la prima che feci eliminare. Sapevo che avrei fatto un favore a molta gente. E molti al suo funerale, ne sono sicuro, gioirono di non averla più attorno.

Nell'andarmene incontrai il Sindaco.

“Cara Anna, mi congratulo per la tua vincita. Spero ti ricorderai del tuo Sindaco quando sarà il momento, magari ci scappa un bel aumento di livello”.

Questa domanda mi spiazzò, i politici sanno essere poco chiari pur facendo sembrare il contrario.

In conclusione, non avevo capito se volesse un contributo per il comune, per il partito o per sé. Nel dubbio gli risposi alla sua maniera.

“Mi ricorderò, mi ricorderò certamente di darti il tuo avere”.

Pagai doppio per lui. Prima lo feci rapire e tenere a pane e acqua per un mese. 

Rimase in vita fino a quando rivelò che i soldi che incassava per il partito se li teneva lui.


Me ne andai.

Pensando che... forse quei soldi... quella fortuna... sarebbero stati utilmente utilizzati.

Qualche piccola idea mi stava già arrivando.

Non lo sapevo ancora, ma sarei finita con l'aiutare il mondo a liberarsi dei propri parassiti. 

Cominciando dai miei.


Merletti e segreti (o viceversa)

 


Aspettavamo per cena una coppia con il figlio. Qualcuno lo aveva descritto problematico, e andava alla scuola elementare con il nostro. Non eravamo amici, ma solo genitori di compagni di classe delle elementari.

Ci si vedeva all’ingresso e all’uscita della scuola. Mia moglie aveva frequentata la madre del compagno solo per qualche riunione scolastica e niente chat di whats, vietata dopo l’ennesimo equivoco scatenatovi.

Parevano un po’ spaesati, soprattutto la madre, perché il padre non si vedeva molto.

Venivano da un piccolo paesino della Sicilia, si erano trasferiti in Emilia per il lavoro del marito, qualcosa che riguardava la sicurezza, la guardia giurata credo, mentre lei faceva la casalinga.

Li avevamo invitati anche per farli stare bene, per aiutarli a integrarsi. Non avevano amici da queste parti.


La settimana prima avevamo trovato in terrazza il nido di un qualche uccello. Il nido era vuoto, costruito in un giorno. Nascosto tra i rametti delle piccole piante che adornavano il bordo del terrazzo.

Lo teniamo? Lo buttiamo? Come comportarci? tutte domande che vennero spazzate via quando vedemmo arrivare a rotazione due merli, che avremmo poi capito essere il maschio e la femmina, che portavano ancora materiale alla costruzione della loro casa.

Da quel momento il loro nido diventò anche il nostro, una sorta di tabernacolo della vita che si rinnova, si sviluppa e va avanti nonostante tutto.

Speranza per i giovani compagni merli di avere dei piccoli merlini da accudire.

Erano state deposte le uova, ben quattro, ponendoci tutti in trepidante attesa della schiusa.


La sera della cena eravamo imbarazzati come lo sono degli sconosciuti che si studiano e si squadrano per trovare qualcosa da dire senza creare inconvenienti. Cercando di creare un ponte comune su cui stare assieme.

Accomodatevi, un attimo che prepariamo, date un’occhiata in giro che arriviamo subito, gli dicemmo dalla cucina.

Il marito era purtroppo molto silenzioso, la moglie aveva timore di dire e guardava spesso il marito come attendendo il parere favorevole alle proprie parole.

A volte lo sguardo del marito la zittiva. L’imbarazzo per noi era sempre maggiore. 

Poi venne fuori il discorso dei merli in terrazza. Raccontammo tutta la storia orgogliosi come se i merli fossero figli nostri.

La moglie ammiccava sorridente, il marito non sembrava molto interessato, ma se non altro non guardava male la moglie.

Il figlio divenne curioso di vederli dal vivo. 

Eravamo molto titubanti nel far vedere il nido, la merla stava covando e avevamo timore che se avessimo disturbato, gli uccelli avrebbero abbandonato il nido.

Ma il bambino non aveva aspettato il nostro permesso né i genitori l’avevano bloccato. L’unico accenno della madre era stato stoppato dal solito sguardo del padre.

Il bambino era andato in terrazza e poco dopo, con sguardo deluso e senza dire nulla si era accomodato a tavola.


Avrei voluto andare a controllare, ma sembrava brutto, come non mi fidassi del bambino. 

Avevo però un’altra possibilità, la webcam che avevo posizionato sopra al nido per tenerlo d’occhio senza disturbare.

L’avevo collegata a un pc in camera e così con una scusa andai a controllare con un’ansia nascosta.

La diretta mi confermò che l’ansia era ben riposta. Il nido non c’era più.

Il vaso di fiori su cui si erano dati tanto da fare i due merli, era senza nido. Le uova, la merla il nido, tutto sparito. Mio figlio era dietro di me e aveva visto tutto.

Non feci in tempo a bloccarlo che andò subito dal compagno urlandogli contro.

Mentre mia moglie cercava di bloccarlo, il bambino si mise a piangere farfugliando qualcosa.

I genitori vista la situazione decisero di andarsene con le scuse della sola madre.


Rimasti soli andammo in terrazza a vedere dove stava il nido. Sporgendomi dal parapetto del nostro piano rialzato, lo vidi, nido e uova sparse per il giardino sotto.

Andammo subito a recuperare tutto rimettendo al suo posto nido e uova. Non se ne era rotta nessuna. Non si trattava che aspettare e sperare nella merla.

Nel frattempo, andai a bloccare la diretta della webcam. Il programma cominciò quindi a elaborare la registrazione fatta.

Alla fine, mi trovai con l’ultimo video del nostro documentario sui merli. Cominciai a vederlo per dar loro un saluto, così senza senso dandolo a un video, ma il dispiacere era tanto. Sapevamo dei problemi del bambino e cosa avremmo potuto dire. Potevo solo essere triste per la situazione dei genitori.

Mentre pensavo a tutto questo, distrattamente guardavo e non guardavo il video. Mi resi conto di avere passato il momento della sparizione del nido, ma era strano che non fossi quasi alla fine.

Seguendo l’orario impresso nel video, andai verso la fine più o meno nel momento dell’uscita del bambino in terrazza e il nido non c’era già più. Anzi, il bambino, vista la webcam, si era affacciato facendo un sorriso deluso. 

Se non era stato lui allora chi?

Non mi restava che tornare indietro nel video e trovare quello che avevo paura di scoprire.

Che purtroppo trovai.

Il bambino problematico era il figlio del padre, che lo rendeva tale.


Forma o sostanza

- Oh, ma insomma, la smetti di guardare tutte le altre donne che incontriamo? -

Al mega centro commerciale per la spesa settimanale lui non smetteva di guardare le giovani commesse e le interessanti donne che incontravano.

- e dai, non sto guardando, osservo solamente -

- che differenza ci sarebbe, scusa? -

- una differenza sottile, ma essenziale – lo diceva sorridendole.

- come quando si guarda un’opera d’arte, la si osserva per carpirne i significati che l’autore ha voluto esprimere -

- continuo a non capire, ma vai pure avanti, vediamo dove arrivi -

- sono curiosa – aggiunse sorridendo prima e poi seria - curiosa di capire perché non mi guardi più -

- dai che non è vero – lo diceva mentre guardava una avvenente donna che si stava avvicinando.

- sì che è vero, guardi le altre perché hanno un corpo più bello del mio – lo strattonava per impedirgli di girarsi e seguirne il percorso.

- le guardi, le osservi, usa il verbo che ti pare, solo perché hanno ancora una taglia 38 - se avessero avuto figli le guarderesti meno - 

- se tu avessi avuto dei figli non avresti mantenuto il tuo fisico -

Mario rimase un po’ dubbioso sull’affermazione, la guardò, si guardò come stupito, e poi rispose, serio.

- certo, se li avessi avuti magari avrei fatto in maniera di stare più attento -

- voi uomini la fate facile, in realtà non siete riconoscenti e vi interessa solo una cosa -

- certo che ci interessa, ma non solo, e comunque guardare non fa male a nessuno, e io non sono come gli altri uomini -

- see, sempre così mi dici, immagino come manderesti via quella che è appena passata -

Queste discussioni si ripetevano tutte le volte in cui si recavano in qualche luogo pubblico.


Durante la settimana Sofia, tra le tante improbabili news del cellulare, trovò un articolo.

Stranezze del Mondo, così si chiamava la rubrica, parlava di una donna che lamentava di essere stata un uomo.

Casablanca era attiva per questo già dagli anni Ottanta, per cui, non sembrava questa gran notizia.

Dopo aver letto la successiva news, in cui un padrone aveva azzannato il suo cane, decise che la rubrica Stranezze del Mondo, non era degna di ulteriori approfondimenti.


Il sabato successivo nuova spesa.

La primavera era sbocciata e la temperatura favorevole aveva ampliato i centimetri quadrati femminili esposti agli occhi di Mario.

- Ho letto di una donna che era stata uomo – buttò lì Sofia.

- Divertente – mentre sorrideva alla cassiera.

- Sarebbe un esperimento interessante da fare - 

- In che senso? -

- Se tu diventassi donna magari capiresti cosa vuol dire per me andare in giro con te che sorridi a tutte -

- Io sarei stato più attento -

- A cosa? -

Mario sospirò, la guardò negli occhi pensando se fosse il caso di proseguire e alla fine sbottò.

- A non perdere la forma fisica, a non mangiare tutto quello che mi passa davanti, a fare almeno un po’ di attività fisica -

Sofia rimase basita, ma solo per un attimo.

- Ho capito che non te ne frega niente di me -

- Se facessimo il cambio io non sarei come te -

- Certo, sicuro, paghiamo e andiamo che si fa tardi e mi comincia la partita -

- Ciao Mario - disse una donna nella cassa di fianco mentre andava via.

- Ciao Lisa -

- Buongiorno – continuò stizzita Sofia.

- E quella chi era che non la conosco? -

- Una collega -

- Non l’ho mai vista ai pranzi aziendali - 

Stava per dirle che ci teneva alla linea e li saltava - È da poco che è stata assunta -

- Donna molto bella, e lo dico da donna – disse scocciata.

- È al marketing, e lì solo così le assumono -


Sofia quella notte fece un sogno in cui leggeva la rubrica “Stranezze del Mondo”.

La donna dell’articolo era diventata suo marito che guardava la partita in tv.

Subito dopo il sogno era cambiato di scena e, in soggettiva, lei guardava interessata altre donne al supermercato.

Si svegliò, tutta sudata. Che incubo nel cuore della notte, nel buio assoluto del cuore della notte.

Una volta ripresasi un bisogno naturale l’attirava verso in bagno.

Provò a scendere dal solito lato del letto, ma si accorse di essere dall’altra parte.

Appena entrata in bagno urtò la cesta della roba sporca, quello là lasciava sempre tutto in mezzo, e le scappò uno strano grido di dolore.

L’urlo di quella che era la sua voce, proveniente dalla camera da letto, la finì di svegliare.

Solo ora si rese conto che poteva espletare il bisogno urgente stando in piedi.

La successiva spesa del sabato sarebbe stata molto più divertente.


giovedì 18 marzo 2021

La vicina di casa


Come non raccontare della mia speciale vicina di casa. 

Per descriverla in una caratteristica, avrei detto che era sempre contenta. Così almeno sembrava a me che la sentivo uscire tutte le mattine per recarsi…boh, non so neanche dove.

Sicuramente andava in un bel posto, vista la gioia che l'accompagnava.

Era sempre al telefono, ascoltava un po’ e poi rideva. Generava una risata gentile e prolungata.

La spiavo dalla finestra scostando appena la tenda.

Credo che se ne fosse accorta. Credo che le piacesse. 

La sera tornava ed era ancora al telefono, sempre contenta, non solo sorridente, ma “ridente”. Molte risate, ma senza parlare quasi. Il suo interlocutore era molto spiritoso.

Piaceva averla vicina, sentirla vicina. 

Sarebbe stato bello invitarla a ridere un po’ con me, ma temevo di non essere all’altezza del suo interlocutore e mi dicevo che era meglio aspettare il momento giusto.

L’occasione sarebbe arrivata.

Prima o poi.


Lei abitava al piano sotto al mio, la sentivo solo nel rimbombo delle scale e la vedevo solo dalla finestra. 

Lei...non sapevo neanche il suo nome. Sul campanello era rimasto quello del precedente inquilino. 

Ci eravamo incontrati qualche volta, certo, ma buongiorno, buonasera, ciao.


Un giorno venne a trovarmi un amico informatico. Doveva farmi un intervento al pc, che utilizzavo per lavoro da casa. Il pc era molto sotto pressione, e io con lui se non funzionava.

“Pensi sia grave?”

“Temo sia necessaria una bella rinfrescata al sistema operativo, ma abbiamo tempo. Con che cena mi paghi l’intervento?” Disse scherzando mentre apriva gli sportelli in cucina come cercando qualcosa da mangiare.

Lo pagavo, per dire, facendogli un piatto di pasta e due scaloppine. Lui ci metteva il vino. Avremmo parlato di donne e altre amenità come due adolescenti.

La risata arrivò dolce e profonda dalla tromba delle scale.

“Ma chi è?” mi disse ammiccando. Sapeva della vicina, purtroppo gliene avevo parlato. 

“Sai che oggi sarei potuto venire anche prima, ma non volevo perdermela, volevo finalmente vederla”

Una punta di gelosia mi planò sulle spalle.

“Già, è lei, ma non ti distrarre” non volevo farla entrare nei suoi discorsi sulle donne.

“Non sarai geloso? È da mesi che me ne parli come se fosse la madonna”

“L’hai mai vista rientrare con un uomo?”

“Né far entrare un uomo” aggiunsi serio.

“Li va a trovare lei, ah, ah, ah” non poteva risparmiarsi di concludere.

Mi atterrò addosso una leggera incazzatura.

“Non ti permettere sai. Lei è speciale!” Dissi sorridendo, ma solo per dissimulare.

“Si, va bene, ho capito, andiamo a cenare così non ci pensiamo. Forse…”

Non l'avrei più invitato a cena. 

Solo a pranzo.

“Perché sorridi?” mi chiese il mio amico.


La cena andò avanti tranquilla con molte chiacchiere.

Al caffè mi accorsi che l’avevo finito, non trovavo più il vasetto dopo lo tenevo.

“Dovresti andare giù e chiederle un po’ di caffè” disse come si fosse preparato la domanda.

“La solita scusa stupida per attaccar bottone, dai, non posso” 

“Ti fai troppi problemi, ci vado io”.

Pensavo scherzasse.

E invece ci andò.

Scese le scale.

Bussò alla porta.

La sentii ridere a qualcosa che le aveva detto il mio l’amico.

Sentii chiudere la porta.

Rimase solo il silenzio del vano scale.


Il caffè lo presi il giorno dopo, il vasetto era stato nascosto in fondo a un armadietto.


lunedì 27 luglio 2020

Turno di Notte 2020 - Cogito ergo sum

versione iniziata alle 10 del 25 e servita alle ore 3 del 26 luglio 2020
per il concorso "Turno di Notte"


Cogito ergo sum – Stefano Samorì

L'incipit di Carlo Lucarelli da cui proseguire nella scrittura: 
Ci sono desideri che sembrano impossibili, così grandi e così complessi, così difficili che figurarsi, e invece in un attimo, come per caso, si avverano.
E ce ne sono altri che sarebbero lì, a portata di mano, di dito, addirittura, e poi niente, via, svaniti, scomparsi.
E questo?
Qual era, cos’era, questo?

Svegliarsi rendendomi conto di essere nel buio totale non era stato piacevole.
Steso, sdraiato su una superficie morbida.
Silenzio totale attorno a me.
Sentivo solo il mio respiro.
Provai a muovermi ma non avevo molto spazio intorno. Le mani toccarono subito una superficie morbida, sembrava un cuscino, un esteso cuscino. Potevo sentire i bottoni che fermavano l’imbottitura.
Tutt'intorno sentivo solo imbottitura e bottoni.
Quattro angoli squadravano lo spazio attorno a me.
Provai a ruotarmi ma non avevo spazio sufficiente per farlo.
Non poteva essere che quello che ormai pensavo.
Non dovevo pensarci, era da impazzire affogato nella follia.
Come potevo esserci finito se non ricordavo di essere morto.
Nessuno ricorda di essere morto, del resto nessuno dovrebbe risorgere in queste condizioni.

sabato 25 aprile 2020

Turno di Notte 2019 - Ricordi




versione scritta e servita alle ore 5 del 6 luglio 2019
per il concorso "Turno di Notte



“Erano due, e un attimo dopo tre. 
Ma all'occhiata successiva, giusto il tempo di abbassare lo sguardo, non c’erano più”.
“E perché?”
“Non lo so. Non era la domanda più importante, in quel momento. Avevo una strana sensazione”.
“Preoccupazione? Inquietudine? Paura?”.
“No. Direi sollievo. Di più…felicità. Gioia”.
Come ci ero arrivato, mi chiederete?
“È una lunga storia”.
“Adalgisa era la più veloce, ma anche la più bella, e tutte le pattuglie la fermavano”.

Queste erano alcune frasi che qua e là avevo letto all'interno di un piccolo quaderno giallo trovato nella cantina dei nonni.
“Alessandro, andiamo a cenare che il nonno sai che non vuole si faccia tardi”.
“Ti ho già chiamato tre volte…” Mi disse ancora la mamma richiamandomi all'ordine.
“E non prendere in casa altri fumetti…” continuò, mi piacevano i vecchi Tex del nonno.
Sembrava mi avesse letto nel pensiero, dicendomelo.
Lasciai il vecchio quaderno, molto a malincuore, dove lo avevo trovato.
Cosa ci sarà scritto, chi lo avrà scritto, dove, quando… molte domande mi correvano per la mente mentre mia madre mi stava dicendo qualcosa…
“Come hai detto mammina?” cercando di essere servizievole.
“Passa il parmigiano al nonno che te l’ha chiesto da mezz'ora” mi rispose un po’ alterata.
“Su dai, lascialo respirare un po’, sto povero bambino, che è stato così bravo a scuola” intervenne, con mia somma gioia, la nonna.
La mamma sintonizzò lo sguardo su “poi facciamo i conti dopo”.
Ma i conti dopo non li facemmo, almeno quella sera.
Mi aspettavano gli amici al campetto di calcio per una nuova mitica partita, e la fuga immediata dopo cena impedì alla mamma di fare conti.

Il mattino dopo, tornai in cantina a rovistare. La cantina dei nonni era una miniera di materiale da scoprire, o di roba da buttare, diceva la mamma.
Che poi in parte aveva anche ragione, ma a dieci anni tutto quello che era più vecchio di me, sembrava mitico, come provenisse da un remoto passato che nascondeva misteriosi segreti.
Quel quaderno era molto più vecchio di me. Si capiva dagli angoli consumati della copertina. Dal tema raffigurato nella prima pagina. Dall’aroma che emanava, qualcuno avrebbe detto puzza, di polvere, umida e stantia.
Cominciai a leggere.
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“È una lunga storia”.
La mattina in cui mi catturarono era una bella mattina di gennaio, di quelle belle fredde, di quelle che la neve in collina arriva ai primi piani, di quelle che si starebbe meglio in una casa con il camino acceso, avendo la legna da bruciare.
Nel 1944 ormai di legna non ne era rimasta molta. Troppi inverni di ristrettezze e razionamenti ci avevano portati al disastro finale che si prospettava.
A noi renitenti alla leva non restava che la fuga nei boschi delle nostre colline. La pena era la fucilazione e tanto valeva fare qualcosa per cercare di liberarci.
La repubblica, perché poi chiamarla repubblica, di Salò e la linea Gotica, avevano congelato tutto il nord dell’Italia nell'attesa sfibrante di essere liberato.
A vent'anni non avevamo mezze misure, e fare il partigiano era meglio che fare il repubblichino. Certo non tutti la pensavano così.
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Mi fermai pensando a quello che leggevo. Di cosa stava parlando il quaderno? Chi erano questi partigiani?
Andai a chiedere alla mamma, che prima si lamentò del fatto che la storia a scuola non si fa più, poi che non aveva tempo e infine mi girò verso mio padre, che era al lavoro fino a sera…
Per questo l’unica era andare su internet e cercare.
Peccato che si trovasse di tutto, chi ne parlava bene e chi male. Chi parlava bene dei partigiani e chi ne parlava male.
Parteggiavo per i partigiani, ma forse era perché il protagonista misterioso lo era?
Tornai alla lettura del quaderno.
La storia si dilungava su diverse azioni compiute dal protagonista.
Era un diario di azioni pericolose, di nemici e amici morti.
Fino a che anche il mio “amico” fu catturato.
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E un giorno mi catturarono
Dopo un sommario processo, e dopo avermi picchiato per fare vedere che erano dei duri, senza che avessi detto niente, il capitano dei repubblichini mi condannò a morte.
Il mio gruppo aveva attaccato due camion di tedeschi e fascisti che erano appena stati a rastrellare un paesino vicino picchiando e facendo quello che volevano.
Inferiori di numero, dopo averli mitragliati e averne uccisi qualcuno e finito l’effetto sorpresa, eravamo dovuti scappare in fretta in tutte le direzioni.
Purtroppo, alcuni di noi erano stati catturati.

Quella mattina del gennaio del 1944, ero davanti a un quartetto d’italiani vestiti di nero, magari con qualche strappo ai vestiti, che ormai eravamo alla fine della storia.
In tre mi puntavano contro i loro moschetti. Il quarto, poco più anziano ordinava.
Al primo sparo, due moschetti scoppiarono mentre il terzo fallì il bersaglio.
Non sentii neanche il sibilo sfiorarmi. Se volevano spaventarmi, con quei due scoppi, a loro insaputa lo avevano fatto.
Dopo una serie di bestemmie che pronunciarono in coro, pur diverse tra loro, che tanto erano già destinati all'inferno, andarono a prendere altri moschetti che avevano dentro la baracca lì a fianco.
Mi venne quasi da ridere, ma vista la situazione, cercai di stare serio.
“E perché?”
“Non lo so. Non era la domanda più importante, in quel momento. Avevo una strana sensazione”.
“Preoccupazione? Inquietudine? Paura?”.
“No. Direi sollievo. Di più…felicità. Gioia”.
Sapete quella sensazione che avete in cui siete certi che il prossimo numero che estrarranno vi garantirà di fare tombola?
Quella gioia.
Si rimisero in fila, due che erano ancora tutti neri dell’esplosione avvenuta prima che non so neanche se ci vedessero bene, con i nuovi fucili, assieme al “cecchino” di prima.

Che poi non è che dovessi lamentarmi della mancata organizzazione, del resto era sempre stata un po’ così anche in tempi migliori, non potevano certo arrivare tutti i treni in ritardo neanche allora.
“Pronti, attenti, via…” ci fu una grossa esplosione e non riuscirono a fare altri spari.
Uno scomparve disintegrato, gli altri volarono via, “Erano due, e un attimo dopo tre. Ma all'occhiata successiva, giusto il tempo di abbassare lo sguardo, non c’erano più”.
Anch'io caddi indietro spinto dallo spostamento d’aria, quasi illeso, a parte una ferita a una gamba e un’altra a un braccio.
Uno del plotone di esecuzione, andando indietro doveva aver premuto un qualche ordigno che era rimasto inesploso fino a quella mattina.
Non era rimasto molto dei quattro ragazzi che volevano fare il bene dell’Italia.
Un po’ mi dispiaceva comunque, per com'erano arrivati a pensare che quella fosse la strada giusta da percorrere.
Adalgisa arrivò per prima con la sua bicicletta pensando che fosse oramai successo l’irreparabile.
Subito dietro di lei arrivarono gli altri compagni, armati e decisi a liberarmi.
“Adalgisa era la più veloce, ma anche la più bella, e tutte le pattuglie la fermavano”.
Lo diceva sempre il nostro capitano. È perfetta per distrarre le pattuglie. La perquisiscono ogni volta inutilmente mentre altre passano senza farsi notare e portano ordini.
“Non è niente di grave, non ti preoccupare” le dissi.
Aveva uno sguardo preoccupato ma felice nel medesimo momento.
“Devo dirti una cosa Antonio” Antonio ero io.
“Che succede d’altro” le dissi preoccupato.
“Aspettiamo un bambino e lo voglio chiamare Licinio”.
“Licinio?”
“Ma come ti viene in mente di chiamarlo Licinio?”
Le risposi, come se non fossi sorpreso, scherzando sul nome che in realtà piaceva anche a me.
“Brutto… coso… che non sei altro, sono incinta e adesso devi fare il tuo dovere, e il nome lo scelgo io”.
Disse abbracciandomi e baciandomi facendomi anche provare un gran male al braccio ferito con la stretta.
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Licinio!
Ma, è il nome del nonno…
Quello che vuole sempre cenare alle 18:30.
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“È una lunga storia”.
Mentre eravamo abbracciati Ada ed io, e assieme ai miei compagni festeggiavano lo scampato pericolo, sentimmo arrivare un camion da dietro la curva che dava nella cava dove eravamo.
I camion li avevano solo i tedeschi, se trovavano carburante per farli viaggiare.
E, infatti, non facemmo in tempo a scappare che il camion arrivò.
La sparatoria che ne scaturì vide la morte di metà dei miei compagni e la cattura degli altri.
Ne uccidemmo molti anche noi, ma la consolazione era molto magra.
Persi di vista Ada.
Fummo deportati in un campo di concentramento dopo un viaggio durato giorni su un carro bestiame.
Il campo era in Polonia
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Il bisnonno continua descrivendo situazioni che non possono essere accadute. Persone lasciate morire di stenti, la caccia ai topi per nutrirsi, forni in cui erano bruciati i cadaveri, camere in cui erano uccise persone con gas…
Non possono essere successe queste cose.
Il solito internet mi dovrebbe fornire maggiori informazioni. Ma anche questa volta trovo di tutto, anche chi dice che queste cose non sono mai successe.
Perché il bisnonno dovrebbe mentire nel suo diario?
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Finalmente tornammo a casa. L’Italia aveva perso la guerra. Il fascismo era stato sconfitto. I treni continuavano come prima a fare come potevano.
Ritrovai Adalgisa. Era riuscita a scappare e non l’avevano catturata. Era davvero veloce in bicicletta. Il mio Licinio mi aspettava con lei.
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Andai da mamma per farle vedere il quaderno che avevo ritrovato in cantina in mezzo ai tanti fumetti del nonno.
“Mamma, guarda cosa ho trovato in cantina”.
La mamma stava per sgridarmi, ma si fermò quando vide la copertina del quaderno.
Lo prese e lo accarezzò, come se avesse ritrovato un vecchio amico.
“Va bene, Alessandro, adesso parliamo dei bisnonni Antonio e Adalgisa.